È possibile produrre cibo carbon neutral?

Tra gli alleati che possono contribuire alla mitigazione dei cambiamenti climatici ci sono gli alberi, ma anche il suolo può dare un contributo molto importante.

L’agricoltura è la prima a risentire degli effetti del cambiamento climatico, ma è anche responsabile di circa il 7% delle emissioni di gas serra in Italia (dati Ispra). Tra le azioni di mitigazione il carbon farming si rivela una delle più interessanti, permettendo agli agricoltori di trarre guadagno dalla cessione dei crediti di carbonio. Ma occorre sviluppare degli schemi per misurare con precisione i risultati ottenuti.

Con il varo del Green Deal, l’Unione Europea si è posta un obiettivo molto ambizioso: raggiungere entro il 2050 la carbon neutrality, ovvero le zero emissioni nette. Che cosa vuol dire più nel dettaglio? Per capirlo bisogna fare innanzitutto una premessa: quando parliamo di riscaldamento globale ci riferiamo esclusivamente alle emissioni legate alle attività umane. E non ci riferiamo soltanto all’anidride carbonica, la famigerata CO2, che rilasciamo in grandi quantità nell’atmosfera bruciando per esempio combustibili fossili, ma anche ad altri gas climalteranti, come metano (CH4) e protossido d’azoto (N2O), che per certi versi sono ancora più insidiosi. L’impatto di ciascun gas a effetto serra si misura in tonnellate di CO2 equivalente (CO2e).
Ebbene, una tonnellata di metano equivale a 20 tonnellate di CO2e, mentre una di protossido d’azoto addirittura a 265 tonnellate di CO2eq.

Per tornare alla domanda iniziale, per carbon neutrality non s’intende un azzeramento di tutte le emissioni di questi gas: in meno di 30 anni sarebbe irrealizzabile. Significa invece che dovremo arrivare a una condizione tale per cui ad ogni tonnellata di gas serra emessa in atmosfera ne dovrà essere rimossa altrettanta. È chiaro che bisognerà ridurre le emissioni a tutti i costi; d’altro canto, non basterà certo piantare nuovi alberi (che assorbono CO2 attraverso la fotosintesi), ma sarà indispensabile mantenere in buona salute gli ecosistemi marini e terrestri a livello globale.

Ora, l’impatto dell’industria agroalimentare in termini di emissioni di gas serra è tutt’altro che trascurabile: come fa notare l’Unep (Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente), l’agricoltura e la zootecnia rappresentano la prima fonte di emissioni per metano e protossido d’azoto. La buona notizia, però, è che il settore agricolo ha il potenziale per porsi in prima fila nella lotta contro il cambiamento climatico.

Come funziona la compensazione delle emissioni

Per comprendere il concetto di carbon neutral è indispensabile introdurre quello di carbon offset: con questa espressione inglese si indicano le attività volte a compensare le emissioni di gas serra. Negli ultimi anni è diventata la parola magica sulla bocca di tutte le aziende che vogliono mostrare di essere sostenibili.

Prendiamo l’esempio che probabilmente ci è più familiare: l’aviazione civile. L’aereo, come è risaputo, è il mezzo di trasporto più inquinante. Per fare sentire meno in colpa i viaggiatori e dimostrare il proprio interesse nei confronti della tutela dell’ambiente, le compagnie aeree affermano di compensare le emissioni dei loro velivoli portando avanti nel mondo progetti certificati di riforestazione, di produzione di energia da fonti rinnovabili e via discorrendo.

In gergo tecnico, la compensazione volontaria delle emissioni avviene attraverso l’acquisto di crediti di carbonio. In parole povere, da una parte ci sono aziende e governi che possono acquistare dei “permessi a inquinare”; dall’altra ci sono sempre aziende e governi che invece possono vendere parte delle proprie quote accumulate grazie a una serie di azioni virtuose. E per azioni virtuose intendiamo tutto ciò che non solo ha contribuito all’assorbimento di CO2 o comunque alla riduzione delle emissioni, ma anche ha avuto risvolti positivi per l’ambiente e la società in linea con gli obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite (vedi i 17 SDGs sul sito SIMTUR.it).

Il sistema di scambio delle quote di emissione (noto anche con la sigla ETS, che sta per Emission Trading Systems) è oggetto di accesi dibattiti. Non ci inoltreremo in questo terreno minato, ma ci limiteremo a riprendere quanto osserva il World Resources Institute: e cioè che le misure di compensazione possono svolgere un ruolo di primo piano nell’accelerare la transizione verso la carbon neutrality a livello mondiale, ma non possono in alcun modo sostituirsi alla necessità di ridurre le emissioni di gas serra.

Due esempi di produzione “a impatto zero”

La domanda a questo punto è: come si diventa carbon neutral nel settore agroalimentare? Sul panorama europeo cominciano ad affacciarsi alcune realtà interessanti. Sugli scaffali dei supermercati britannici, per esempio, lo scorso ottobre hanno fatto la loro comparsa le patate “Root Zero” dell’azienda gallese Puffin Produce.

Con l’aiuto di una società di consulenza, è stata misurata l’impronta di carbonio del prodotto lungo tutta la sua filiera, dal campo al consumatore finale. L’impegno è quello di minimizzare le emissioni di gas serra nella fase produttiva (per esempio, scegliendo varietà di patate che non richiedono una conservazione a basse temperature), in quella di trasporto, fino ad arrivare al packaging, che è 100% plastic free.

Le emissioni residue vengono compensate attraverso tre progetti internazionali: uno in Nicaragua, dove l’azienda finanzia la realizzazione di una foresta di bambù, uno in India per la fornitura sicura di acqua potabile, e uno in Ruanda per mettere a disposizione delle famiglie fornelli elettrici più efficienti dal punto di vista energetico, con l’obiettivo di raggiungere l’agognata carbon neutrality per il 2050.

Ma il fenomeno riguarda anche l’Italia. Di recente, la startup bergamasca Carne Genuina ha infatti lanciato con successo una campagna di equity crownfunding per la produzione di carne di qualità a impatto zero. Già, proprio quella carne che risulta il prodotto alimentare con l’impatto più forte sull’ambiente.

La startup sostiene di essere riuscita a compensare le emissioni del 2021, neutralizzando il 60% della CO2 prodotta grazie all’installazione di pannelli fotovoltaici su tutta la struttura e compensando il restante 40% con l’adozione di 35 baobab in Kenya. Per quest’anno prevede di replicare dopo aver stretto un accordo con un’altra startup, Forever Bambù, che si occupa della piantumazione di bambù gigante.

Una nuova frontiera: il carbon farming

Tra gli alleati che ci possono aiutare nella mitigazione dei cambiamenti climatici non ci sono soltanto gli alberi. Anche un suolo in buona salute può dare un contributo molto importante. Ed è proprio sulla naturale capacità del suolo di catturare e immagazzinare l’anidride carbonica dall’atmosfera che si basa il carbon farming. Un’etichetta che racchiude un insieme di pratiche agricole il cui scopo è quello di mantenere vitale il suolo e di favorire il processo di sequestro del carbonio, che viene poi utilizzato sotto forma di sostanza organica (a beneficio della fertilità del suolo stesso).

Il principio è semplice. Quando muoiono, le piante liberano quell’anidride carbonica che avevano utilizzato per produrre glucosio attraverso la fotosintesi. Il carbonio contenuto nella biomassa vegetale può però essere incorporato nel terreno grazie all’opera di lombrichi, insetti e altri piccoli organismi, senza quindi entrare in contatto con l’ossigeno presente nell’aria. In questo modo, non si libera CO2 in atmosfera e in più il campo si arricchisce di sostanza organica, ovvero nutrimento per le piante che potranno essere seminate in un secondo momento.

Ma come si attiva tutto questo meccanismo? Prevalentemente in due modi. Primo, seminando cover crop, letteralmente colture di copertura: si tratta di colture non destinate alla raccolta – veccia, trifoglio, rafano, senape, solo per citarne alcune – la cui funzione è quella di coprire i terreni agricoli durante la stagione invernale, preservando la vitalità del suolo e aumentando la fertilità. In secondo luogo, attraverso pratiche di agricoltura conservativa come il minimum tillage (la lavorazione minima del terreno): evitando di effettuare arature profonde e di rivoltare il terreno, si impedisce infatti il processo di mineralizzazione della sostanza organica e quindi il rilascio di CO2 in atmosfera.

Un’opportunità anche economica

Il carbon farming potrebbe fare bene non solo alla biodiversità del suolo, ma anche alle tasche degli agricoltori. Se infatti da un lato il ricorso a tecniche di agricoltura conservativa consente di mantenere una certa produttività delle colture, dall’altro vanno aggiunti i benefici ambientali che abbiamo appena elencato e che si possono trasformare in quote di carbonio da cedere sul mercato.

Non è un caso che la Commissione europea abbia avviato un’iniziativa sul carbon farming e stia studiando la possibilità di premiare gli agricoltori virtuosi proprio attraverso il riconoscimento dei crediti di carbonio maturati. Insomma, l’adozione di pratiche agricole di sequestro della CO2 può rappresentare non solo una risposta dell’agricoltura al cambiamento climatico, ma anche una sorta di valore aggiunto verde.
In questa direzione vanno gli Ecoschemi della PAC.

C’è però un fattore importante da considerare: occorrono metodi e strumenti che consentano di quantificare con precisione i benefici derivanti dal carbon farming. Sarebbe necessario, per esempio, mettere a punto dei sistemi di monitoraggio accurati (pensiamo all’evoluzione tecnologica nel campo della sensoristica e dell’Internet of Things) in grado di verificare e misurare i risultati ottenuti grazie all’adozione di specifiche pratiche agricole. Tutto ciò si traduce inevitabilmente in costi più elevati, ma anche in questa partita l’innovazione digitale ha tutte le carte in regola per giocare un ruolo da protagonista.


Tratto da un contributo di Federico Turrisi per Startup Italia

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